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Io non ho paura

di Martin Gøttske & Erica De Stale

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A Ying Jinxian tremano le mani e il volto si irrigidisce in un'espressione di trepidanza. È tesa, e ne ha ogni ragione. Fra pochi secondi inscenerà una pubblica protesta nel bel mezzo del cuore politico della Cina, la piazza Tiananmen. Sull'angoscia prevale tuttavia la disperazione: da undici anni Ying Jinxian lotta per riavere suo figlio - che, afferma, è stato rapito dal capo del partito locale - e deplora il mancato sostegno da parte di un sistema giudiziario che reputa corrotto.

Il suo lamento è vergato in caratteri rossi sopra a un telo, che indossa prima di iniziare a correre con impeto. Urla: «Salvatemi la vita, salvatemi». Il suo grido raggela la scena. I turisti smettono di sorridere alle macchine fotografiche. I venditori di cartoline sospendono l'incessante invito all'acquisto. Lo sguardo dei proprietari degli aquiloni si distoglie dal cielo. Istantaneamente, l'aria è trafitta dagli ordini convulsi che rimbalzano nei walkie-talkie del nutrito gruppo di poliziotti presenti sulla piazza. «Abbiamo un problema, abbiamo un problema», strilla un agente.

Una coppia di anziane signore sussulta mentre il meccanismo ben oliato delle autorità entra in azione. A soli dieci secondi dall'inizio della protesta, due agenti bloccano l'emaciata quarantaquattrenne e le strappano il telo di dosso, per nascondere alla vista gli infamanti caratteri rossi. Ying Jinxian presto si accascia e con modi spicci viene trascinata via.
«Non mi è rimasto alcuno scopo nella vita a parte questa lotta», aveva spiegato prima della protesta. «L'unica cosa che posso ancora fare è dare quante più seccature possibili al Governo, che mi ha abbandonata».

Sembra però che la corazza del regime non sia stata neppure lievemente scalfita dal gesto della donna. Appena spenta la protesta, la vita sulla piazza ritorna alla normalità. Le guide turistiche puntano nuovamente l'indice verso il gigantesco ritratto di Mao Zedong, che veglia sul piazzale, e gli aquiloni riprendono a volare.

Ying Jinxian è svanita e dimenticata.
Non si dissolvono invece i radicati problemi della società cinese che hanno suscitato la sua protesta. La signora Ying è soltanto uno dei tanti cittadini che denunciano le prevaricazioni dei rappresentanti locali del regime e il fallimento di un sistema giudiziario iniquo, incapace di tutelare gli interessi della popolazione.

Come previsto da una tradizione risalente all'epoca imperiale, i cinesi raggiungono il centro politico della capitale per appellarsi alla giustizia degli organi supremi di governo. Pechino è dotata di un apparato di "uffici di petizione", da tempo ultima opportunità di riscatto per gli elementi più disperati della società. Il sistema ha tuttavia raggiunto il collasso sotto il peso smisurato dei reclami e della corruzione serpeggiante tra i funzionari.

Ying Jinxian se n'è resa conto in prima persona. Accusa un capo locale del partito nella provincia dello Zhejiang di averle sottratto illegalmente il figlio. Convinto che la gravidanza della signora Ying contravvenisse la cosiddetta politica del figlio unico, nonostante si trattasse del suo primo bambino, il funzionario le ha ordinato di abortire. La signora Ying ha deciso di partorire a dispetto di questa imposizione arbitraria, che ritiene sia dipesa dall'ostilità del capo del partito nei confronti dell'allora marito. Quando la nascita è stata scoperta, il figlio le è stato tolto ed è stato venduto a una famiglia residente in un'altra provincia.

Da allora la signora Ying ha percorso per ventiquattro volte i mille chilometri che separano la sua casa da Pechino, per chiedere al Governo centrale quell'aiuto che il sistema giudiziario controllato dall'autorità locale non voleva concederle. Si è persino armata di megafono e, di fronte alla dimora del presidente Hu Jintao, ha urlato il proprio dolore oltre le alte mura del potere. Non è servito a nulla.

Al contrario, le autorità hanno cercato di zittirla assieme agli altri appellanti che, come lei, denunciano di aver subito soprusi. Nell'anno delle Olimpiadi il Governo si è sfinito nel soffocare i reclami di queste persone anziché garantire i loro diritti. Sono state arrestate, molestate e cacciate dalla capitale. Il successo dei Giochi non ha risolto i loro problemi, e quindi loro sono rimasti a Pechino.

Nella zona sud della capitale, nei pressi degli "uffici di petizione" annessi alla Corte suprema, gli appellanti trascorrono anni nell'attesa che qualcuno esamini i loro incartamenti.
«Dai un'occhiata al mio caso! Guarda qui!», gridano disperati all'unisono. Sven-tagliano i loro fasci di carte e raccontano le prepotenze di cui ritengono d'essere vittime. Alcuni piangono in silenzio. Altri mulinano le braccia con irruenza. Gli incartamenti contengono descrizioni dettagliate degli abusi subiti, e tutti insieme costituiscono un grave atto d'accusa contro il regime. Vi si legge di condanne a morte senza equo processo, espropri illegali, mancato risarcimento a seguito di incidenti sul lavoro e innumerevoli storie di attuazione brutale della politica del figlio unico. La lista potrebbe continuare all'infinito.

  CONTINUA ...»

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